L'assunzione di farmaci antipertensivi al momento di coricarsi, invece che al mattino, riduce i valori di pressione arteriosa (Bp) durante le ore notturne e dimezza il rischio di sviluppare diabete di tipo 2. È quanto evidenziano i risultati di una ricerca apparsa online su "Diabetologia", il giornale della Associazione europea per lo studio del diabete (Easd). Lo studio, pubblicato in due articoli separati, è opera di Ramón Hermida e colleghi dell'Università di Vigo (Spagna). Gli autori analizzano in dettaglio i dati, dimostrando il concetto che la riduzione della Bp durante le ore del sonno rappresenta un obiettivo per un intervento volto a prevenire nuovi casi di diabete. Inoltre esaminano se la terapia con l'intera dose giornaliera di uno o più ipertensivi (in caso di elevati valori pressori) prima di coricarsi eserciti una maggiore riduzione del rischio di diabete di nuova insorgenza rispetto a una terapia basata sull'assunzione di tutti i farmaci al risveglio. In particolare, Hermida e colleghi hanno condotto uno studio prospettico, randomizzato, in aperto e in cieco con endpoint prespecificati su 2.012 pazienti ipertesi non diabetici (976 uomini e 1.036 donne) con età media di 53 anni. I pazienti sono stati assegnati in modo casuale secondo uno schema generato via computer in gruppi nei quali tutti i farmaci per l'ipertensione loro prescritti erano ingeriti al risveglio oppure l'intera dose giornaliera di uno o più di tali farmaci era assunta al momento di coricarsi. Nel corso di un follow-up mediano di 5,9 anni, 171 partecipanti hanno sviluppato diabete di tipo 2. I pazienti del gruppo 'bedtime', rispetto a quelli trattati al mattino, hanno mostrato un valore medio della Bp durante il sonno significativamente inferiore e un maggiore calo della Bp correlato al tempo del sonno. Nel gruppo trattato al momento di coricarsi, inoltre, si è vista una minore prevalenza del fenomeno del 'non dipping' per cui di notte la Bp dei pazienti con tale caratteristica scende a meno del 10% rispetto ai valori diurni: il 32% dei pazienti trattati al momento di coricarsi sono risultati non-dippers, contro il 52% dei soggetti trattati al mattino (p<0,001). Al di là di ciò, si è rilevata una diminuzione del 57% del rischio di sviluppare diabete di tipo 2 di nuova insorgenza nel gruppo 'bedtime' dopo aggiustamento per i potenziali fattori confondenti quali glicemia a digiuno, circonferenza vita, media della pressione sistolica nel sonno, classificazione in base al fenomeno del dipping e presenza di malattia renale cronica. Ulteriori analisi hanno dimostrato che una maggiore riduzione del rischio di sviluppare diabete è stato osservato - confrontando il trattamento serale e quello mattutino - con i bloccanti del recettore dell'angiotensina o Arb (61%), gli Ace-inibitori (69%) e i beta-bloccanti (65%). Tutti questi farmaci, infatti, modulano o bloccano gli effetti dell'angiotensina II, ormone che provoca non solo vasocostrizione e aumento della Bp ma contribuisce anche a un maggiore rilascio di glucosio dal fegato e a una diminuita sensibilità all'insulina. Secondo Hermida e colleghi la sicurezza dell'assunzione degli antipertensivi al mattino o alla sera prima di coricarsi è analoga ma, aggiungono, «nei pazienti ipertesi senza diabete l'ingestione di tutta la dose giornaliera di uno o più antipertensivi al momento di coricarsi confrontata con l'assunzione di tali farmaci al risveglio risulta in un significativo miglioramento del controllo della Bp durante il sonno e nella prevenzione del diabete di tipo 2 di nuova insorgenza». Nel secondo lavoro, gli autori hanno valutato un gruppo di 2.656 soggetti senza diabete (1.292 uomini e 1.364 donne) suddivisi in classe di Bp (inclusi anche soggetti normotesi) valutando prospettivamente i valori pressori medi al risveglio e al momento di coricarsi. È emerso che «la Bp nel sonno rappresenta un marker prognostico altamente predittivo per diabete di tipo 2 di nuova insorgenza» e, pertanto, secondo gli autori «la riduzione della Bp nel sonno potrebbe diventare un nuovo metodo per ridurre tale rischio».
Diabetologia, 2015 Sep 23. [Epub ahead of print]
Allo studio longitudinale di coorte, pubblicato su Cjasn, il Clinical Journal of the American Society of Nephrology, hanno preso parte oltre 200 centri diabetologici su tutto il territorio nazionale italiano, aderenti all'iniziativa degli Annali Amd, per un totale di circa ventimila pazienti. Lo scopo era di verificare se elevati livelli di uricemia potessero essere correlati al danno renale dopo quattro anni di follow-up. «L'iperuricemia è largamente prevalente nei pazienti con insufficienza renale cronica, e in molti studi ha dimostrato di essere un fattore predittivo indipendente dello sviluppo di diabete mellito di tipo 2 e di eventi cardiovascolari» scrivono gli autori, sottolineando che finora un solo studio longitudinale ha valutato il ruolo dell'uricemia nello sviluppo di nefropatia cronica in pazienti con diabete di tipo 2, ma tali soggetti presentavano già albuminuria alterata al basale, mentre uno dei criteri di inclusione dello studio di De Cosmo era una normale funzionalità renale, il che ha permesso una migliore comprensione del ruolo dell'acido urico sul danno renale e dei meccanismi iniziali coinvolti. Dai risultati descritti su Cjasn emerge un raddoppio delle probabilità di sviluppare una malattia renale cronica nei pazienti con iperuricemia anche moderata. Nel diabete di tipo 2 è opportuno quindi monitorare i livelli dell'uricemia dal momento che il danno renale è una complicanza che interessa circa il 40% dei diabetici e può preludere alla comparsa di un'insufficienza renale che potrebbe aggravarsi fino alla dialisi. «È di fondamentale importanza studiare e individuare nuovi potenziali fattori di rischio di danno renale, oltre a quelli noti come l'ipertensione e l'iperglicemia» afferma De Cosmo, spiegando che ciò non solo permetterebbe di comprendere meglio i meccanismi alla base del danno al parenchima renale, ma anche di individuare nuove strategie preventive e terapeutiche. «In conclusione, i livelli di acido urico nel sangue sono un forte predittore indipendente di insufficienza renale nei pazienti con diabete di tipo 2 e questo dato apre la strada a studi per valutare se il trattamento dell'iperuricemia possa rallentare il danno renale nelle popolazioni a rischio come, appunto, i pazienti con diabete di tipo 2» concludono i ricercatori.
Salvatore De Cosmo del Dipartimento di scienze mediche all'Irccs Casa Sollievo della Sofferenza di San Giovanni Rotondo
IDegLira, combinazione di insulina degludec (analogo dell'insulina a lunga durata d'azione) e liraglutide (analogo a singola somministrazione giornaliera iniettiva del GLP-1 umano). È infatti emerso che i pazienti trattati con IDegLira riportano una maggiore soddisfazione per il trattamento e riferiscono un miglioramento nella salute fisica rispetto a soggetti trattati con insulina glargine 100 U. I dati provengono dallo studio clinico di fase 3b DUAL™ V - i cui risultati sono stati presentati nella capitale svedese - volto a valutare l'efficacia e la sicurezza di IDegLira rispetto a un aumento di dosaggio dell'insulina glargine 100 U (entrambe in combinazione a metformina) in adulti con diabete di tipo 2 non controllato con la stessa insulina glargine 100 U. I dati della ricerca, basati su risultati riferiti dai pazienti (Patient Report Outcomes, PRO) ottenuti da questionari validati compilati dai partecipanti allo studio, forniscono una prospettiva sulla qualità di vita (Quality of Life, QoL) e sulla soddisfazione per il trattamento. L'originalità e l'importanza di questo tipo di dato risiede nel fatto che permette di valutare quale sia il vissuto del paziente, la sua opinione, elementi che i ricercatori non potrebbero altrimenti misurare od osservare. «L'effettivo impatto che il trattamento ha sulla vita di un paziente va al di là degli obiettivi di efficacia e sicurezza. Infatti, capire come il trattamento influenza il benessere e la quotidianità del paziente è fondamentale per comprendere il valore di una terapia» afferma Stephen Gough, dell'Università di Oxford e dell'Oxford University Hospitals NHS Trust. «È questa la ragione per cui siamo entusiasti dei risultati che emergono da questo studio: la percezione positiva che i pazienti hanno relativamente a IDegLira è in linea con i risultati clinici». I PRO ricavati nello studio DUAL™ V sono stati estrapolati da due questionari, TRIM-D (Treatment Related Impact Measure for Diabetes) e SF-36 (Short Form-36 Health Survey). I dati raccolti sono quindi stati organizzati in categorie definite
A Stoccolma, nel corso della 51a edizione del congresso dell'European Association for the Study of Diabetes (EASD), sono stati presentati nuovi dati derivati dall'analisi post-hoc del programma di sviluppo clinico di fase 3a SCALE™ (Satiety and Clinical Adiposity-Liraglutide Evidence in Nondiabetic and Diabetic people), nel quale sono state coinvolte più di 5.000 persone obese (BMI ≥30 kg/m2) o in sovrappeso (BMI ≥27 kg/m2) con almeno una comorbilità correlata al peso (quali ipertensione, dislipidemia, diabete tipo 2, apnea notturna) trattate con liraglutide 3 mg. Il farmaco è un analogo iniettivo del GLP-1 (glucagon-like peptide-1) da usare una volta al giorno per il trattamento dell'obesità; è simile per il 97% al GLP-1 endogeno, un ormone rilasciato in risposta all'assunzione di cibo che favorisce il senso di sazietà e diminuisce la fame e l'appetito. Inoltre, come gli altri GLP-1 agonisti, stimola l'increzione di insulina e riduce quella di glucagone in maniera glucosio-dipendente, potendo portare a una riduzione della glicemia a digiuno e postprandiale. Tornando ai dati presentati all'EASD, quelli relativi ai due studi "SCALE™ Obesità e Prediabete" e "SCALE™ Diabete" hanno evidenziato come i pazienti adulti che rispondono precocemente alla terapia (definiti "early responders", che hanno perso cioè almeno il 5% del loro peso corporeo dopo aver completato 16 settimane di trattamento con liraglutide 3 mg, a un follow-up a 56 settimane risultano avere ottenuto una maggior riduzione ponderale rispetto a chi ha perso meno del 5% del suo peso nelle prime 16 settimane (early non-responders). Tutti i pazienti arruolati sono stati sottoposti a dieta a ridotto contenuto calorico e ad aumento dell'attività fisica. «Questi dati dimostrano l'importanza di identificare gli adulti che rispondono precocemente al trattamento con liraglutide 3 mg» afferma Matthias Blüher, direttore dell'ambulatorio per l'obesità dell'Università di Lipsia (Germania), e ricercatore nello studio SCALE™. «Gli early responders trattati con liraglutide 3 mg hanno una più elevata probabilità di ottenere un maggiore calo ponderale, ma è anche molto più probabile che vedano un miglioramento nei fattori di rischio cardiometabolico». Va aggiunto che i dati dello studio "SCALE™ Obesità e Prediabete" dimostrano che il 67,5% degli adulti obesi o sovrappeso con comorbilità legate al peso (escluso il diabete di tipo 2) sono risultati "early responders" (n=2.487), con una perdita di peso corporeo in media dell'11,5% dopo avere completato 56 settimane di trattamento, a fronte di una perdita di peso del 3,8% negli altri pazienti. Le percentuali di pazienti early responders che hanno perso oltre il 5%, il 10% e il 15% del loro peso corporeo dopo 56 settimane di trattamento sono state, rispettivamente, 88,2%, 54,8% e 24,2% (36,9%, 8,3% e 1,8% per i pazienti early non-responders). Invece, nello studio "SCALE™ Diabete", la quota degli early responders è risultata lievemente inferiore, attestandosi al 50,4% degli adulti obesi o sovrappeso con diabete di tipo 2 (n=423), con una perdita di peso media del 9,3% dopo 56 settimane di trattamento rispetto a una perdita di peso del 3,6% negli altri pazienti. In questo caso, le percentuali di pazienti early responders che hanno perso oltre il 5%, il 10% e il 15% del loro peso corporeo dopo 56 settimane di trattamento sono state rispettivamente 80,1%, 44,6% e 11,6% (a fronte di valori, nell'ordine, pari a 33,3%, 5,8% e 1,3%). In entrambi gli studi, i pazienti early responders hanno mostrato maggiori miglioramenti nei fattori di rischio cardiometabolico, tra cui pressione arteriosa, colesterolo e trigliceridi. Da notare che il profilo complessivo di sicurezza è stato genericamente comparabile tra i due gruppi di pazienti: in particolare, nello studio "SCALE™ Obesità e Prediabete" l'incidenza di eventi avversi gravi è stata del 6,4% negli early responders, rispetto a 5,3%, mentre nello studio "SCALE™ Diabete" è stata, nell'ordine, del 7,6% e 9,9%. Gli eventi epatobiliari - relativi a fegato e cistifellea - sono stati più frequenti nei pazienti early responders nello studio "SCALE™ Obesità e Prediabete" (rispettivamente 3,5% e 2,1%). «In persone obese o sovrappeso e con diabete di tipo 2 i tassi di ipoglicemia sono stati bassi in entrambi i gruppi di pazienti (rispettivamente 1,1% e 0,6%)» sottolinea infineBlüher «e tutti i casi si sono verificati in persone che assumevano, sotto prescrizione, sulfaniluree». Da ricordare infine che liraglutide 3mg ha ottenuto l'autorizzazione al commercio in Europa il 23 marzo 2015. Nell'Unione Europea, è indicato in associazione a dieta ipocalorica e aumento dell'attività fisica per la gestione del peso in pazienti adulti con un indice di massa corporea superiore o uguale a 30 kg/m2 (obesi), o superiore o uguale a 27 kg/m2 e inferiore a 0 kg/m2 (sovrappeso) in presenza di almeno un'altra comorbilità legata al peso quali disglicemia (prediabete o diabete mellito di tipo 2), ipertensione, dislipidemia o apnea ostruttiva nel sonno.
C'era molta attesa, all'EASD di Stoccolma, per la comunicazione dei risultati definitivi (pubblicati in contemporanea sul "New England Journal of Medicine" del trial EMPA-REG OUTCOME, condotto con empagliflozin, inibitore del cotrasportatore sodio glucosio (Sglt2). Il farmaco, alla dose di 10 o 25 mg ha determinato nei pazienti trattati una riduzione significativa degli eventi cardiovascolari (CV) che comprendevano (in un endpoint composito) mortalità CV, infarto non fatale o ictus non fatale. «In realtà il dato in assoluto più impattante in termini di efficacia e prevenzione cardiovascolare è stato quello della riduzione della mortalità CV» commenta Riccardo Candido, Responsabile del Centro Diabetologico - Distretto 3 di Trieste. «Questa riduzione si è associata a migliore controllo glicemico, riduzione della pressione arteriosa, riduzione del peso e della circonferenza vita». Candido, prima di soffermarsi nei dettagli dello studio, fornisce un inquadramento preliminare. «Nella cura del diabete di tipo 2 gli studi eseguiti finora hanno dimostrato chiaramente che riducendo la glicemia e l'emoglobina glicata si è in grado di determinare una riduzione dello sviluppo delle complicanze microvascolari, quali retinopatia, nefropatia e neuropatia» ricorda. «Dati controversi restano in merito alla possibilità che il trattamento dell'iperglicemia si associ a una riduzione delle complicanze macrovascolari come infarti, ictus e morti CV». In passato diversi studi sono stati condotti in tal senso, molti dei quali non hanno dimostrato se non nel lungo termine un possibile effetto di protezione CV dal trattamento dell'iperglicemia. «In particolare, rispetto al rischio di infarto del miocardio, risultati positivi si sono avuti solo in un sottogruppo di pazienti trattato con metformina nello studio UKDPS e nei pazienti trattati con pioglitazone nel trial PROACTIVE anche se per questo ultimo studio si trattava di un endpoint secondario e non principale» cita Candido. «Alcuni studi sono stati condotti recentemente con DPP-IV inibitori e GLP-1 agonisti, che hanno dimostrato la sicurezza CV ma non la superiorità di questi trattamenti rispetto alla terapia standard». Rimaneva dunque il punto di domanda sull'effetto cardioprotettivo delle terapie ipoglicemizzanti. Recentemente le Agenzie Regolatorie del farmaco, FDA ed EMA, richiedono sempre studi di sicurezza cardiovascolare per nuovi farmaci ipoglicemizzanti, compresi gli inibitori Sglt2 (dapagliflozin, canagliflozin ed empagliflozin) e il primo giunto a termine è stato l'EMPA-REG OUTCOME in cui si sono valutate la sicurezza CV e l'eventuale superiorità, in termini di riduzione della mortalità e degli eventi CV, del trattamento con empagliflozin aggiunto alla terapia standard rispetto alla sola terapia standard. «Lo studio ha coinvolto più di 7.000 pazienti (età media: 63 anni) con diabete di tipo 2 ad alto rischio CV e inadeguato controllo glicemico trattati con la nuova molecola in aggiunta alla terapia standard» descrive Candido. «Il trial è stato realizzato in 42 Paesi ed è durato circa 3 anni. I soggetti arruolati sono stati suddivisi in 3 gruppi: placebo, empagliflozin 10 mg ed empagliflozin 25 mg». I dati preliminari già facevano presagire il raggiungimento dell'endpoint primario (morte CV, infarto non fatale o ictus non fatale) e la dimostrazione di superiorità rispetto alla terapia standard. «In particolare, è emerso che rispetto al gruppo placebo, per 1.000 soggetti trattati, sono state salvate 25 vite: nel gruppo attivo ci sono state 57 eventi fatali CV verso 82 nel placebo, con una riduzione in termini percentuali di eventi e mortalità CV dell'11% e, considerando la sola mortalità CV, del 38%» riprende Candido, citando i dati comunicati all'EASD. «C'è inoltre stata una riduzione significativa dell'ospedalizzazione per scompenso cardiaco, con 14 pazienti ospedalizzati in meno in numeri assoluti per 1.000 soggetti trattati e, in termini di riduzione percentuale, del 35%». Sono dati molto importanti, sottolinea Candido, perché per la prima volta si dimostra chiaramente che un trattamento ipoglicemizzante è in grado di prevenire le complicanze macrovascolari del diabete e anche in tempo contenuto (3 anni), senza il rischio di determinare pericolose ipoglicemie. «Questi farmaci sono generalmente ben tollerati» specifica il diabetologo «e hanno come effetto collaterale più tipico un aumentato rischio di infezioni genitali, soprattutto nelle donne (ma questo accade normalmente nel diabete con glicemie elevate) e nei soggetti predisposti a infezioni genitali ricorrenti. Tali infezioni si risolvono trattandole senza sospendere il trattamento con l'antidiabetico». Da ricordare che le associazioni di questi farmaci con altri comunemente usati sono sicure.
Zinman B, Wanner C, Lachin JM, et al. Empagliflozin, Cardiovascular Outcomes, and Mortality in Type 2 Diabetes. N Engl J Med, 2015 Sep 17.